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mercoledì 9 gennaio 2013

Felicità e anarchia


rivista anarchica
anno 42 n. 376
dicembre 2012 - gennaio 2013

 
di Enrico Finzi

Al suo secondo libro sulla felicità “percepita”, un sociologo riscontra sostanziali analogie tra elementi della tradizione libertaria e le aspirazioni di molti italiani/e.

In certi ambienti Paolo Finzi, noto a voi tutti come animatore di “A”, è sempre stato considerato mio fratello, il Finzi minore rispetto al 'noto sociologo' (che poi sarei io). Nel vasto mondo libertario io sono ignoto oppure sono sempre stato ritenuto – pur più vecchio – il fratello minore, meno rilevante, di Paolo. Ora, per la prima volta, i due fratelli si incontrano su queste pagine: non perché io, ricercatore sociale di tradizione comunista italiana, sia passato all'anarchismo, ma poiché è appena uscito un mio libro, Felici malgrado che in qualche modo invade il campo libertario. Il volume sviluppa alcuni studi sul rapporto tra gli Italiani e la felicità, sulla base non delle mie opinioni ma di migliaia di interviste demoscopiche a campioni rappresentativi della popolazione: e lo fa aggiornando un mio precedente libro del 2007 alla luce della drammatica crisi del paese, nello sforzo di descriverne l'immenso disagio sociale e – contemporaneamente – i tentativi messi in atto dai nostri connazionali per conquistare un po' di felicità nonostante il peggioramento del proprio tenore di vita e il boom della disperazione collettiva e individuale. Beh, che c'entra tutto ciò con la pratica e il pensiero libertari? C'entra molto, poiché alcuni dei modi-chiave della ricerca nostrana dell'appagamento esistenziale hanno molti punti in comune con la tradizione anarchica. Provo a spiegare come e perché.

In primo luogo gioca la massiccia presa di distanza sia dal capitalismo, dalla formazione economico-sociale fondata sulla proprietà privata e sul cosiddetto mercato, sia da quella specifica cultura (volgarmente detta consumismo) che ha dominato dagli anni '50 in poi diffondendo l'illusione che il crescente acquisto di beni e servizi garantisca di per sé una vita migliore. Il tutto in un contesto inedito, caratterizzato da una potente insofferenza riferita all'ormai insopportabile disuguaglianza sociale, alla marcescenza del potere e delle sue istituzioni, alla manifesta falsità delle ideologie correnti.

In secondo luogo – pur se quasi nessuno lo dice – si osserva un forte riorientamento verso i valori, gli ideali: non, come in passato, quelli legati alla religione, ma quelli 'laici' o comunque comuni a molte opzioni, inclusa quella dell'ateismo e dell'agnosticismo. Al fondo, è come se la crisi, che non è solo economico-sociale ma di civiltà, stesse rilanciando le filosofie della responsabilità, dell'impegno, della generosità a scapito del menefreghismo, del disimpegno, dell'egoismo: anche se questa realtà, documentata dalle indagini sociali, non viene (volutamente) fatta emergere dai mass media, i quali invece mirano a indebolire le variegate forze del riscatto e dell'opposizione sociale.

Ancor di più conta, nel perseguimento d'una vera realizzazione esistenziale, la riscoperta della cooperazione, del rigetto dell'individualismo, della socialità come valore e come prassi, come mostra il capitolo del libro dedicato proprio a questo nodo cruciale, qui sotto riportato quasi integralmente.

La conclusione è sorprendente, comunque non banale: la rottura di un pluridecennale equilibrio (o disequilibrio) apre nuovi spazi a chi ha avuto sinora un ruolo assai minoritario, a volte di mera testimonianza. Per dirla in altri termini, per i libertari si moltiplicano le opportunità di estendere la propria influenza, di proporre – a volte in modo nuovo – le proprie convinzioni ed esperienze in un mondo che, proprio grazie ai suoi disastri, attende, chiede, chiama, persino invoca nuove vie di liberazione degli umani.

Enrico Finzi
sociologo, presidente di AstraRicerche


Cooperare

La felicità è vivibile e vissuta solo personalmente: nessuno può delegarla o, al contrario, sperimentarla per conto di un'altra persona. Ma è spesso sia relazionale, affondando le sue radici nei rapporti con gli altri (a volte pochissimi), sia – più a fondo – sociale. Perché? A parte il nostro, già citato, essere 'animali sociali', dobbiamo considerare i tanti benefici connessi alla cooperazione tra gli umani.
 
In primo luogo, stare con gli altri è un potente antidoto al veleno dell'infelicità. Senza dubbio, a volte le relazioni interpersonali risultano sgradevoli, ansiogene, persino ammalanti. Ma, in genere, favoriscono la realizzazione esistenziale, se sono davvero libere, profonde, durature e specialmente variegate (cioè con soggetti e ambienti diversi): anche se poche e selettive, 'pantografano' l'io, lo espandono, lo rafforzano.
 
Il secondo beneficio deriva dal coinvolgimento valoriale, dal condividere non episodicamente passioni, ricordi, progetti, attività: insomma, dallo stare insieme non solo per farsi compagnia ma per produrre o consumare o svolgere un'attività socialmente utile sulla base di una 'filosofia' comune.
Ma non è solo questione di valori e azioni: se si passa dalla collaborazione alla cooperazione in senso stretto (quella di certe famiglie e associazioni oltre che di molte delle vere coop) se ne godono i vantaggi: la proprietà comune, con obiettivi avvertiti come propri; il maggior peso delle istanze etiche; un significativo senso di appartenenza; la protezione dei membri più deboli; il minor divario di potere e di reddito rispetto alle imprese private e pubbliche; il reinvestimento degli utili; la persistenza nel tempo; la tendenza a sfavorire i leaders e gli stili di leadership autoritari.
 
Ecco, se vogliamo accrescere la soddisfazione esistenziale impariamo a lavorare in squadra e a cooperare con altri (meglio condividendo con essi proprietà, governo, responsabilità): il che richiede regole comuni, tolleranza reciproca, mutue gratificazioni. La sillaba-chiave è 'co': quella che fonda il co-involgimento, la con-divisione, la co-operazione e anche il con-tatto, la com-partecipazione, il con-senso, al fondo la com-unità, l'essere 'noi' che è proprio dell''io', l'identità personale come fascio di relazioni.
 
Viene da interrogarsi: cosa richiede la vita 'in cordata' con altri? Secondo le ricerche, molte delle seguenti dieci esperienze o virtù:
- l'ascolto degli interlocutori: curioso, empatico, rispettoso, non iper-valutativo;
- il dialogo, basato sull'apertura agli altrui contributi e sul piacere della mutua influenza;
- la citata condivisione di valori, interessi, analisi, programmi, attività;
- la comune motivazione, il reciproco 'rinforzo';
- il vero e proprio gioco di squadra, che funziona se ci sono fiducia, 'ingaggio' e impegno di ciascuno;
- la trasparenza, nelle relazioni interpersonali e nell'organizzazione;
- l'orientamento all'obiettivo, più che l'ottemperamento delle norme;
- la comunanza di dignità, riconosciuta e tutelata;
- la valorizzazione dei talenti;
- la solidarietà, specie nelle difficoltà;
- l'oblatività, ossia lo sforzo generoso e gratuito a favore degli altri per aiutarli e gratificarli.
 
Troppo? In apparenza sì, se non fosse che tutto ciò – complesso a descriversi se razionalizzato – nella realtà risulta semplice e accessibile: tale lo rendono il DNA che ci orienta alla collaborazione; tante esperienze di successo in ogni epoca; i valori delle principali culture democratiche fondate su libertà, uguaglianza e fraternità (o sororità); gli stessi fallimenti epocali sia dell'autoritarismo (richiedente sudditi o schiavi e non cittadini) sia dell'individualismo (non quello 'buono' che esalta il ruolo e la responsabilità di ognuno ma quello 'cattivo' che contrappone individuo a società, indebolisce le libere comunità anche conflittuali, respinge l'idea-limite – la meta e la bussola – dell'autogoverno collettivo).
 
La ricerca della gratificazione esistenziale è così anche politica, riguarda la polis e il senso – a un tempo primo e ultimo – del nostro essere 'animali sociali'.

Tratto da Felici Malgrado, pagg. 78-81.
E. F

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