« La Repubblica italiana riconosce il
giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno
della Memoria“, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del
popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini
ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte,
nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al
progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite
e protetto i perseguitati.
Il 27 gennaio 1945 le truppe sovietiche dell’Armata Rossa, in marcia verso Berlino, abbattono i cancelli del campo di concentramento di Auschwitz. Il mondo si trova dinnanzi per la prima volta all’orrore del genocidio nazista: da quel momento nomi come Auschwitz-Birkenau, Treblinka o Mauthausen diventano dolorosamente famosi, simboli eterni ed agghiaccianti del piano razziale di Hitler. Dalle testimonianze dei sopravvissuti e dal ritrovamento degli strumenti di tortura e di annientamento nei vari campi fu possibile scoprire la vera natura della ‘soluzione finale’ volta allo sterminio totale del popolo ebreo e di quei gruppi non conformi al disegno nazista di purezza e perfezione della razza ariana: rom, omosessuali, neri, malati di mente, comunisti, slavi e via dicendo. Tutti quei gruppi definiti Untermenschen, ‘sottopersone’. Tra il 1941 ed il 1945 nei campi di concentramento e di sterminio istituiti dal regime nazionalsocialista morirono tra i dieci e i quattordici milioni di persone.
Numeri che hanno reso l’Olocausto forse il
genocidio più tristemente famoso del Novecento, quando non di tutta la storia
fino ad oggi. Famoso ma, purtroppo, non unico: se infatti le testimonianze
dei sopravvissuti e lo sdegno internazionale hanno fatto molto affinché nulla
di quanto accaduto in quegli anni andasse dimenticato, lo stesso non si può
dire di altri genocidi che nell’ultimo secolo hanno insanguinato il pianeta. Se
si considera valida la definizione stabilita dall’ONU, secondo cui
costituiscono genocidio ‘gli atti commessi con l’intenzione di
distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o
religioso’, è forse giusto che accanto alle vittime della
follia nazista nel Giorno della Memoria si ricordino anche le vittime
di altri genocidi che invece sono stati dimenticati.
Armenia. Il genocidio armeno fu il primo
del ‘900: tra il 1915 ed il 1916 il governo turco condusse una campagna
di eliminazione sistematica della minoranza armena, già perseguitata
dal sultano Abdul Hamid II tra il 1895 ed il 1897 perchè considerata nemica di
religione oltre che alleata della Russia contro l’impero ottomano: solo in
quell’occasione, definita ‘primo genocidio armeno’, nei pogrom furono uccise
più di duecentomila persone. Quando salirono al potere i Giovani Turchi, i
primi anni del ’900, la loro idea di una federazione di tutti i popoli inclusi
nell’impero ottomano servì a mascherare in realtà un feroce
nazionalismo turco che vedeva nell’elemento armeno un pericolo
interno da distruggere. Si iniziò il 24 e 25 aprile 1915 con la
deportazione e lo sterminio dell’intera intellighenzia armena
(giornalisti, intellettuali, scrittori, persino parlamentari), per poi
proseguire con arresti di massa della popolazione ed estenuanti ‘marce
della morte’ nel deserto senza né cibo né acqua, mentre l’esercito turco
massacrava i civili a macchia di leopardo in tutto il territorio. Fu solo
con la fine della Prima Guerra Mondiale ed il conseguente trattato di Sèvres
(1920) che si stabilì l’esistenza di uno stato armeno. Il governo
turco non ha ancora riconosciuto il genocidio come tale e in Turchia è in
vigore ancora oggi la legge del 1927 che vieta agli armeni l’ingresso nel
Paese. Il numero di morti tra il 1915 ed il 1916 è stato
stimato tra un milione e un milione e mezzo.
Holodomor, Ucraina. Con holodomor
(dal russo moryty holodom, letteralmente ‘infliggere la morte per
fame’) si indica una carestia ideata e realizzata dal regime comunista
di Stalin nei primi anni Trenta per indebolire l’Ucraina e la
sua tradizione di aziende agricole private. Dapprima si assistette ad
una collettivizzazione forzata delle strutture agricole, alla quale si opposero
i ricchi contadini e proprietari terrieri (i kulaki) del ‘granaio
d’Europa’ che furono con questa scusa deportati in Siberia, dove
morirono a migliaia. La collettivizzazione provocò una prima carestia e le
confische alimentari divennero una prassi istituzionalizzata, ma fu alla fine
del 1932 che la situazione precipitò definitivamente: le autorità iniziarono a
requisire non sono il grano ma qualunque genere alimentare e attrezzo agricolo
nelle campagne, distrussero i forni da cucina, vietarono il possesso di
cibo nelle zone rurali e qualunque tipo di commercio alimentare e arrivarono ad
stabilire la pena di morte per chi rubasse qualcosa da mangiare. Dopo questi
provvedimenti la gente cominciò a morire in massa: dapprima i
bambini, poi gli uomini e gli anziani ed infine le donne. In tutto
morirono di fame tra i sette ed i dieci milioni di persone: un numero
che si aggiunge ai morti nei campi di lavoro in Siberia istituiti dal regime
staliniano, i cosiddetti ‘gulag’, dove secondo le stime
persero la vita all’incirca sei milioni di persone. L’holodomor è
stato riconosciuto come crimine contro l’umanità dal Parlamento Europeo solo
nel 2008.
Nigeria. La guerra civile scoppiò nel 1967,
a seguito delle pressioni indipendentiste del popolo Igbo che
aveva proclamato la Repubblica del Biafra nella zona
sudorientale del Paese. La risposta del governo nigeriano a questa
dichiarazione non si fece attendere: nel Biafra si trovano infatti i
quattro quinti del petrolio nigeriano. Nel corso del conflitto, conclusosi nel
1970 a favore della Nigeria, si calcola che siano morte
all’incirca due milioni di persone, soprattutto a causa di fame e
malattie e tre milioni circa furono i profughi in fuga dalla zona. Tutte le
infrastrutture delle regioni Igbo furono completamente distrutte. La guerra
civile oltre alle vittime provocò anche una progressiva discriminazione
del popolo Igbo, tanto nel settore pubblico quanto nel privato, che li ha resi
uno dei gruppi etnici più poveri sulla terra. I leader del Biafra spingono
affinché i crimini commessi durante la guerra civile siano riconosciuti come
genocidio.
Cambogia. Il genocidio avvenuto in Cambogia è forse uno dei meno noti in Occidente, sia per il tentativo dei Khmer rossi di nascondere i loro crimini, sia per una certa distrazione mediatica nei confronti di zone del mondo ritenute ‘periferiche’. Tra il 1975 ed il 1979 i Khmer rossi guidati da Pol Pot occuparono il Paese: l’intera popolazione venne classificata in categorie come ‘popolo nuovo’ (da rieducare nei cosiddetti ‘campi di rieducazione’ o ‘killing fields’), ‘sotto-popolo’ e ‘traditori’ (da eliminare). Vittime delle persecuzioni del regime rosso furono le minoranze vietnamite, cinese e musulmana Cham, ma anche chiunque avesse una laurea o esercitasse una libera professione, considerata ‘borghese’ e quindi da estirpare in funzione dell’egualitarismo rurale instaurato nel Paese. I Khmer rossi sterminarono all’incirca due milioni di cambogiani su una popolazione di 7,7 milioni di abitanti. A mettere fine ai soprusi fu l’invasione della Cambogia da parte del Vietnam, che costrinse i Khmer rossi alla fuga sulle montagne, ma non è ancora stato istituito un tribunale internazionale per portare giustizia al popolo cambogiano.
Ruanda. La storia del Ruanda è segnata in
modo inequivocabile dal genocidio del 1994, che vide accanirsi
le milizie locali e le bande di etnia hutu contro la minoranza tutsi, uno
scontro esploso a seguito delle tensioni accumulatesi negli anni. Il
Belgio – affidatario della regione dal 1924 tramite un mandato ONU –
aveva infatti costretto i ruandesi ad inserire sulla carta d’identità
l’etnia di appartenenza e aveva fornito il suo appoggio all’etnia
tutsi in nome delle teorie fisiognomiche che vedevano nei tutsi, più alti e
slanciati e con la pelle un po’ più chiara rispetto agli hutu, un’etnia
superiore. Negli anni ’50, gli hutu iniziarono a ribellarsi ai tutsi, che nel
frattempo premevano per ottenere l’indipendenza dal Belgio: il Belgio scelse
dunque di sostenere la ‘rivoluzione hutu’. Nel 1962, il Ruanda divenne stato
indipendente, ma ciò non placò gli scontri che si susseguirono negli anni tra
gli estremisti tutsi del Fronte Patriottico Ruandese (Fpr) e gli ultrà
dell’Hutu Power. Quando il presidente Habyarimana, di etnia hutu, si
rifiutò di dividere il potere con i tutsi, il suo aereo venne abbattuto a
Kigali (aprile 1994). Fu l’inizio del genocidio: più
di un milione di persone – soprattutto di etnia tutsi, ma anche hutu
sospettati di aiutare i ‘nemici’- vennero trucidate con armi
rudimentali e machete. Non esistevano posti sicuri, vennero violate
anche le chiese e le operazioni di sterminio erano coordinate da radio ‘Mille
Colline’, che invitava i tutsi a presentarsi ai blocchi stradali per farsi
ammazzare. Francia, Gran Bretagna e Belgio organizzarono l’evacuazione dei
propri cittadini dal Paese, lasciano il Ruanda a se stesso. Il Fpr prese infine
il potere a luglio dello stesso anno e milioni di hutu lasciarono il paese per
timore di vendette da parte dei tutsi. Nel novembre del 1994 fu istituito dalle
Nazioni Unite il Tpir, Tribunale Pena Internazionale per il Ruanda: in più di
dieci anni, ha giudicato e condannato per il genocidio soltanto una ventina di
persone.
Bosnia, Srebrenica. Il massacro di
Srebrenica si inserisce nel quadro della guerra in Bosnia (1992-1995), che
causò in totale più di 250.000 morti: i dirigenti comunisti serbi nel corso del
conflitto si rendono colpevoli di pulizia etnica nei confronti dei musulmani
bosniaci. Il massacro di Srebrenica è considerato uno degli stermini di
massa più sanguinosi avvenuti in Europa dalla fine della Seconda Guerra
Mondiale: nel luglio 1995 le truppe serbo-bosniache, guidate da Ratko
Mladic, condussero un massacro sistematico dei musulmani bosniaci della zona
protetta di Srebrenica che si trovava sotto la tutela delle nazioni Unite. Le
stime ufficiali parlano di più di ottomila morti, anche se le
associazioni per gli scomparsi e le famiglie delle vittime ritengano più
plausibile una cifra che superi i diecimila. Una volta entrate nella città, le
truppe serbo-bosniache separarono gli uomini dai 14 ai 65 anni dal resto degli
abitanti per essere ammazzati. Delle migliaia di salme esumate dalle
fosse comuni, solo poche più di sei mila sono state identificate: alle
altre si sta ancora cercando di dare un volto. la Corte Internazionale di
Giustizia dell’Aja nel 2007 ha riconosciuto il fatto come genocidio
poiché ‘l’azione commessa a Srebrenica venne condotta con l’intento di
distruggere in parte la comunità bosniaco musulmana della Bosnia-Erzegovina e
di conseguenza si trattò di atti di genocidio commesse dai serbo bosniaci’.
Darfur. Dal 2003 il Darfur, regione nel sud
ovest del Sudan, è sconvolta da una sanguinosa guerra tra la
maggioranza nera e la minoranza araba che nel resto del
Sudan costituisce invece la maggioranza della popolazione e detiene il
potere. La guerra fra arabi e africani contrappone le milizie governative,
affiancate dalle truppe ‘regolarizzate’ dei janjaweed di etnia
araba, ai movimenti di liberazione formatisi tra la popolazione del Darfur, il
Movimento per la Giustizia e l’Uguaglianza e il Movimento per la Liberazione
del Sudan. ‘Janjaweed’ è un termine coniato dalla popolazione e significa
‘uomini a cavallo con la scimitarra in mano’: arrivano nei villaggi spesso
preceduti da un bombardamento del governo (che ufficialmente tuttavia nega il
suo appoggio ai guerriglieri), ammazzano gli uomini, violentano le donne e
avvelenano i pozzi. La guerra in Darfur non è stata qualificata però come
genocidio, perché non è ancora identificata come tentativo deliberato di
cancellare un popolo dalla terra. Finora in Darfur sono morte più di
400.000 persone.
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