11.06.2013
ACQUA PUBBLICA
Il 12 e 13 giugno di due anni fa, circa 26 milioni di italiani hanno speso qualche minuto del proprio tempo per votare due sì al cosiddetto “referendum per l’acqua pubblica”. Oggi ognuno di loro farebbe bene a spendere altrettanti minuti per provare a capire cos’è successo nel frattempo e cosa si potrà fare in futuro.
Da più parti si sente ripetere che, come al solito, il
referendum non è servito a niente. I privati continuano a gestire il servizio
idrico locale e nelle bollette c’è ancora la famigerata percentuale per la remunerazione
del capitale investito, ovvero: per fare profitti sicuri con un bene
comune. Eppure, la narrazione del “voto inutile” va disinnescata, perché non
solo è falsa, ma serve pure a delegittimare l’unico referendum vincente da
diciassette anni a questa parte.
Certo non si può negare che la strada del cambiamento è
stata fin dall’inizio piena di ostacoli. Giusto il tempo di abrogare le norme
oggetto del voto, e subito il governo Berlusconi ha tentato di farle rientrare
dalla finestra con l’articolo 4 del cosiddetto “decreto di Ferragosto”.
Classica data balneare, utile per far passare nefandezze, ma la corte
costituzionale ha bloccato il provvedimento proprio in virtù della volontà
popolare uscita dalle urne. Poi ci hanno provato con il patto di stabilità, la
manovra “salva Italia” del governo Monti e l’autorità per l’energia.
Tanto accanimento non dimostra solo che l’acqua è un buon
affare, ma fa capire anche come gli sconfitti non possano accettare di esserlo.
Perché accettarlo significherebbe ammettere che le risorse più preziose per la
vita devono essere sottratte al mercato e alla libera concorrenza. Il che
equivale a bestemmiare il credo neoliberista, mostrando che la logica del
profitto non è in grado di trovare il giusto equilibrio con il benessere
collettivo. Non a caso, gli anni dell’acqua privata sono stati anche quelli più
poveri di investimenti per migliorare il servizio idrico.
Ma tanto accanimento significa anche che l’avversario è
forte, agguerrito, e lo è grazie al risultato di due anni fa. Gli inquilini del condominio Itaca di Modena, per esempio, hanno deciso di
aderire alla campagna di obbedienza civile lanciata dal forum italiano dei
movimenti per l’acqua. Visto l’esito del referendum, hanno deciso di obbedire
alla legge e di togliere dalle loro bollette la percentuale di “remunerazione
del capitale investito” (circa il 18 per cento). Per far questo, si sono
semplicemente rifiutati di pagarla. La cifra è di poco conto: 500 euro all’anno
per un intero condominio, eppure la multiutility Hera non ha voluto sentire
ragioni e pochi giorni fa – dopo diverse “riduzioni di flusso” – senza nessun
preavviso ha interrotto il servizio. Al che i cittadini sono andati in
municipio con asciugamani e spazzolini da denti per chiedere al sindaco di
poter usare la sua acqua. E il sindaco – che come tale è pure socio di Hera –
ci ha messo una buona parola e ha fatto riaprire i rubinetti, anche se, da buon
sostenitore del referendum, farebbe meglio a pretendere che l’azienda di cui è
azionista rispettasse la volontà popolare.
Nel frattempo a Imperia la percentuale che i modenesi di
Itaca si rifiutano di pagare è stata eliminata dalle bollette. A Vicenza si
lavora per mettere la gestione dell’acqua in mano a una società di diritto
pubblico e senza scopo di lucro. A Reggio Emilia hanno strappato il servizio
idrico al controllo di Iren, una società mista. Inoltre il comune, nel suo
nuovo statuto, garantisce “la gestione partecipativa del bene comune acqua”. A
Trento si protesta contro la nuova In House spa. In Toscana, i comuni dell’ex
Ato 3 (zona di Firenze, Prato e Pistoia) hanno respinto la nuova “tariffa
truffa”, che di fatto ripropone la logica del profitto privato garantito in
bolletta. L’unico a votare a favore è stato il sindaco Matteo Renzi. E poi
Forlì, Palermo, Piacenza…
In tutte queste battaglie, la vittoria referendaria ha fatto
da trincea: utile per coprirsi le spalle, certo non sufficiente per vincere la
guerra e addirittura dannosa per chi sognava di potersi mettere comodo e invece
si è preso i pidocchi, la febbre quintana e il colera.
Recintare un bene comune per sottrarlo alle enclosure
del mercato finanziario è un primo passo indispensabile: il passo successivo
consiste nel ridefinire con quali regole vogliamo utilizzare quel bene. Il
referendum di due anni fa è molto utile anche per questo: ci sta facendo capire
che il termine “pubblico” può voler dire tante cose. Di conseguenza, quando un
bene o un servizio vengono privatizzati e poi si decide di tornare alla
“gestione pubblica”, i tempi per ridefinire quel concetto sono lunghi, inutile
farsi illusioni. In un momento di crisi economica non dobbiamo cedere all’idea
che le decisioni vanno prese in fretta, quindi affidate a esperti, perché
processi più partecipati porterebbero a soluzioni tardive. In questo caso, va
benissimo discutere, confrontarsi e intanto tenere la posizione grazie alla
trincea.
La vittoria nel referendum ci ha fatto capire una volta per
tutte che le nostre istituzioni pubbliche non sono più adeguate a gestire i
beni comuni. Pubblico non è sinonimo di “pubblica amministrazione”, e nemmeno
di “statale”. Sappiamo bene che lo stato devia spesso e volentieri dalla strada
del pubblico interesse per seguire gli obiettivi di quella o di quell’altra
lobby. Per questo, riappropriarsi dello spazio pubblico non può essere una
mossa di semplice conservazione, un ritorno al passato. E nemmeno si può
sperare di raggiungere la meta a suon di riforme, modificando e migliorando
l’esistente. Questa strategia può funzionare nell’immediato, ma sul lungo
periodo bisogna rivendicare la necessità di istituzioni radicalmente nuove, che
diano più potere alle comunità e ai cittadini.
Ecco allora che il sassolino gettato nell’acqua finisce per
allargare il discorso con le sue onde circolari: dalla gestione del servizio
idrico si passa alle questioni della democrazia, della governance, della
rappresentanza.
Chi oggi osteggia l’applicazione del referendum, ha capito
perfettamente qual è la posta in gioco.
È tempo che lo capiscano in pieno anche tutti gli altri, se
non vogliamo perdere un’occasione preziosa.
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