di Fabio
Balocco | 10 luglio 2013 – Il Fatto Quotidiano
Ci sono uomini le cui opere resistono al tempo. Magari si
impolverano, ma se ci soffiate sopra tornano splendenti come quando sono nate.
Sono uomini che sanno davvero analizzare e capire la realtà.
Quando riguardo ‘La dolce vita’ (e mi capita
spesso), ogni volta mi stupisco della capacità di Federico Fellini
di andare a fondo di quella realtà, di vedere il vuoto che si nascondeva
tra le pieghe dell’Italia del boom.
Pier Paolo Pasolini era un altro di questi
grandi uomini, un uomo che vedeva la fine dell’Italia contadina con i suoi
antichi valori soppiantata dall’omologazione della rampante economia
capitalista, con la televisione a fare da apripista. Anche con gravi
ripercussioni sull’ambiente (come non ricordare la scomparsa delle lucciole?
“Il fenomeno è stato fulmineo e sfolgorante: dopo pochi anni le lucciole non
c’erano più. Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato.”) e
soprattutto sul paesaggio. La civiltà dei consumi (“il vero fascismo”)
distrugge il paesaggio interiore degli uomini esattamente come quello
esteriore.
Nel 1973 Pasolini realizzò un film per la Rai pressoché
sconosciuto “Pasolini…e la forma della città”. È stupefacente l’attualità che
ancora oggi sprigiona da quelle immagini ed è davvero straziante che egli
affermasse sconsolato che oramai non c’era più nulla da fare, che il
capitalismo omologante l’aveva avuta vinta in pochi anni. Profetico: il degrado
è continuato galoppante e l’Italia di allora sembra quasi un gioiello rispetto
al degrado di oggi.
Pasolini fu espulso dal partito comunista. Alla sua morte, De
André gli dedicò la magnifica “Una storia sbagliata”.
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