Viaggiare significa sconfinarti con l'insolito, il
tragico, oltre alla perdita di punti di riferimento. Colui che viaggia ha a
bordo se stesso. Il viaggio è sempre un'uscita dal tempo, una scappata dalla
propria storia. Viaggiare è
andarsene, rompere gli ormeggi. Partire, invece, è riannodare il senso della
condivisione scoprendo quello dell’ospitalità. Viaggiare è anche rischiare di
rompere con il mondo conosciuto, la separazione dagli esseri amati. L’uomo
cerca se stesso e la caccia di sè è il fondamento della sua mobilità. Il
viaggio può essere paragonato a una scuola d’autonomia che dà coscienza delle
realtà umane. Un mito dell’altrove che induce alla mobilità, soprattutto
quando le condizioni nel proprio ambiente non sono ottimali. Un detto
Wolof (un gruppo etnico del Senegal) proclama : " chi non viaggia non
sa dove c’è la bella vita”.
Il viaggiatore sveglio è quello che si serve della sua
esperienza, della sua alterità per meglio vivere il contatto con gli
altri; in Persia si pensa che l’uomo non possa maturare che nel
viaggio.
“ Se non hai studiato, viaggia” dice un proverbio
africano.
L’incontro con l’altro è considerato come una scuola, un modo di acquisire
conoscenze e capacità per gli umani. Il detto è confermato da tante mitologie
e fiabe africane i cui protagonisti completano il loro ciclo di apprendimento
e la loro saggezza visitando parecchi paesi. Mamadou Massina, l’uomo che
liberò il Massina dalla tirannia di un re barbaro, aveva maturato la sua
strategia “à l’école de la rue”, un vagabondaggio che l’aveva portato a
vedere tanti paesi. Nei suoi lunghi spostamenti ha imparato che conquistare
il cuore di una bella fanciulla equivale ad avere i favori della sua
famiglia. Di ritorno al suo paese, ottiene l’amore della figlia del re e
furono proprio i suoi favori che lo misero fuori gioco (leggende contadine
naif). Lat Dior che ha tenuto testa all’invasione francese, ma anche Samori
Toure, come Massa Kanka Moussa vantano anni di vagabondaggio (per così dire)
prima di regalare ai loro rispettivi popoli una degna e valorosa vicenda
umana.
Nella cultura Wolof, si pensa che viaggiare significhi
portare con sé un patrimonio da offrire in terra di accoglienza e in cambio
si spera di tornare con altrettanto da questa terra. Si può pensare che
viaggiare non porti una crescita solamente per il soggetto che viaggia ma
anche per la gente e la terra che lo accolgono. L’uomo da quando ha acquisito la posizione eretta nella “Rift Valleè” ha
sempre guardato e ambito l’orizzonte. Il popolamento del resto della terra si
è svolto mediante emigrazione. Lo sconfinamento è quindi nella natura
dell’uomo. Il dilemma oggi è nel rapporto assai squilibrato che ognuno ha con la
mobilità. C’è chi lo sceglie, c’è chi lo subisce. L’esercito dei viaggiatori
imbocca oggi strani giri: rifugiati politici, migranti del lavoro, nomadi del
tempo libero, le ragioni del viaggio non sono sempre le stesse.
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Ci sono due aspetti del
viaggio: l’itinerante che rinvia all’idea di circolazione, di circuito, di
giro turistico e il migrante che ricorda piuttosto l’idea di trapianto, di
soggiorno, di permanenza. In entrambi i casi il viaggiatore è percepito
nell’immaginario collettivo della gente come un essere potenzialmente non
sottomesso. Ma se arriva dal Sud verso il Nord e in più senza un soldo
in un mondo di ricchi, deve prima sottomettersi al paese di accoglienza
tramite le sue autorità; l’accoglienza qui non è sempre sinonimo di ospitalità.
Con i successi della
globalizzazione (il dominio del potere economico e finanziario
transnazionale), le strade dell’immigrazione clandestina diventano purtroppo
sempre più schiaviste e criminali, legittimando così le politiche repressive
dei governi del Nord. L’indifferenza sotto forma di diffidenza diventa la
regola al posto del benedetto binomio apertura e libertà di movimento. Gli abitanti del Sud del mondo vedono passare sulle loro strade dei
viaggiatori privilegiati, con il solo scopo di visitare, mentre i loro propri
figli tentano di volare, di esiliarsi, di agganciarsi ad una improbabile
terra di accoglienza dove rischiano il respingimento, l’espulsione,
l’umiliazione.
Finora le persone economicamente disagiate sono sempre state costrette al
viaggio.
Il migrante è strettamente legato al mondo del lavoro, un universo che egli
incontra con gli altri nel momento dell’insediamento e nel quale deve
integrarsi per soddisfare i suoi bisogni. L’integrazione di un soggetto in
una società o nella realtà in cui vive è un traguardo importante, una
condizione indispensabile per poter vivere un’esistenza dignitosa per sé e
per la propria famiglia. L’integrazione è anche un percorso che dura più vite
o generazioni, non ha limite di età e non è mai compiuto. Parliamo, quindi,
di grado di integrazione di una persona, di una famiglia o di una
comunità in una società che accoglie. È un cammino lungo e a volte
difficoltoso per problemi legati sia all’individuo (cultura e costume della
società di origine da conservare) sia alla comunità di approdo (più o meno
conservatrice, privilegi economici e sociali da salvare e paura
dell’estraneo).
Tutti gli immigrati auspicano
di vivere dignitosamente nella terra d’accoglienza, cioè di diventare
soggetti di diritti e di doveri. Uno dei diritti inalienabili è quello
inerente alla cittadinanza senza la quale vengono meno tutti gli altri. Il
non cittadino o l’essere cittadino di secondo grado è di per sé una negazione
alla vita, ai diritti fondamentali, a un’opportunità di partecipazione
effettiva, cioè a un «integrazione» di qualsiasi tipo.
La principale arma degli uomini sedentari, autoctoni, per controllare la
mobilità è lo Stato. L’essere in movimento è prima di tutto essere
controllato di continuo: passaporto, visto, identità, risorse, indispensabili
secondo loro per la sicurezza degli spazi violati e delle popolazioni e per
garantire la stabilità. Questo controllo è spesso un mezzo per dividere i
poveri dai ricchi, gli esclusi dai “nantis”.
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Lasciare il proprio paese natale, può essere motivato da
due necessità:
- essere spinti o costretti a partire quando le condizioni di sopravvivenza
non sono più garantite. Questa a sua volta comporta delle sfumature sia che
le circostanze siano naturali o artificialmente provocate. In entrambi i
casi, la paura dell’ignoto viene travolta da una premura di salvezza e il
luogo di approdo è importante e indispensabile, indipendentemente da quello
che è capace di offrire. Non c’è in generale una consapevolezza della
destinazione ma solo una speranza che le condizioni siano migliori dal luogo
di partenza. Quando una massa di persone costretta a partire si rovescia su
una strada per un luogo presunto più sicuro, non tiene conto del fatto che
per la sua dimensione il luogo di approdo potrebbe scoppiare o non reggere
l’impatto e che le risorse disponibili in quel posto potrebbero risultare
insufficienti per la sopravvivenza di tutti.
L’incolumità (sopravvivenza, sicurezza, etc.) continua ad
essere allora precaria nella maggior parte dei casi. I campi profughi sparsi
nel continente africano e nel resto del mondo, restano sempre delle bombe a
orologeria, difficili da governare. Nello stesso tempo, le condizioni di vita
dei richiedenti di asilo in tutto il mondo, sono infernali e disumane, anche
se i casi presentano un carattere più umanitario che socio-cuturale o
geopolitico. Quando una persona viaggia per hobby, per bisogno di svago
o di vedere altri orizzonti, la scelta è consapevole e i rischi circoscritti.
A questi soggetti, turisti nomadi, che solcano continuamente le strade del
mondo, il viaggio anche se sentito come necessità non diventa mai
obbligatorio come per il gruppo citato prima.
Lasciare un luogo in ogni caso presume una consapevolezza o una speranza
inattaccabile. Nell’era della globalizzazione, le frontiere culturali sono
lontane dallo sposare le frontiere politiche. Quando un gruppo conserva la
sua identità, quando i suoi membri entrano in interazione con altri, questo
implica automaticamente la messa in campo di criteri per determinare
l’appartenenza e l’esclusione. Questo fenomeno é quasi istintivo, cioè non
razionale né ragionevole, una triste realtà. Il rischio in entrambi i casi è lo sconfinamento impedito dalle popolazioni
autoctone e dalle strutture del luogo. Lo straniero, secondo l’immaginario
collettivo di ogni popolazione autoctona, è in ogni caso il portatore della
disgrazia del momento (malattie, insicurezza, etc.), il ladro di turno di
ogni bene posseduto dai padroni di casa (lavoro, ricchezza, etc.).
“Viaggia, scoprirai il senso delle cose e il valore degli uomini.”
Questo detto non ha bisogno di essere commentato, è
frutto di secoli e secoli di osservazione generazionale degli individui con
la sindrome del viaggio nel cuore e nella mente. Vale anche per me, nomade
per circostanza, secondo le opportunità di sopravvivenza. Nulla ha in comune
con quei viaggi, idee e pensieri naturali per ogni individuo. Questo
sconfinamento che è viaggiare, è un rapporto fisiologico con il tempo e lo
spazio nostro. Questa mia riflessione sul viaggio non é il frutto di una
ricerca intellettuale o sociologica, è un vissuto, un esperienza. Sono
partito dal Senegal più di venti anni fa e da allora ho vissuto in tre
nazioni diverse. Sono stato ospite in tante città europee e del mondo ma
soprattutto mi sono confrontato con parecchie persone. Questo ha comportato
varie situazioni che man mano hanno costruito e modellato la mia persona e le
sue molteplici di identità.
Doppia assenza e doppia identità.
L’essere immigrato (viaggiatore) è in effetti una persona soggetta a una
«doppia assenza»: da una parte egli non è più membro attivo della società di
provenienza, dall’altra fatica a trovare un ruolo e una appartenenza
socio-culturale nella terra d’accoglienza. Emigrante per la società di
origine e immigrato per quella di accoglienza, una doppia esistenza in
un’unica vita. Sul piano psicologico, ciò significa che per un immigrato che
percorre la via dell’integrazione non sembra esserci una identità unica. Per
certi versi egli è saldamente aggrappato al suo progetto di vita, per altri
si identifica idealmente con nostalgia nel suo paese di origine (ritorno).
Una «doppia identità» che nemmeno i rientri frequenti in patria (per chi ne
ha il privilegio) o un grado sufficiente d’integrazione nella nuova società
di accoglienza, permettono di reggere senza traumi.
Una domanda mi sorge spontanea: cosa sarebbe il mondo
senza gli scambi avvenuti e che continuano ad avvenire tramite il viaggio? Peccato che l’egocentrismo culturale del Nord del mondo si opponga al
processo naturale di creolizzazione dell’umanità, come pure che il suo
egoismo latente tolga dignità e possibilità di sopravvivenza alle popolazioni
del Sud. In ogni caso gli uomini partiranno sempre finché ci
saranno le strade e l’autentico viaggiatore sarà colui che riuscirà a
confondersi nella popolazione-ospite per meglio scoprire la profondità della
cultura e del popolo. Sarà fortunatamente per una scelta deliberata e
ragionevole, capace di svegliare l’alterità e di suscitare l’incontro con
altre filosofie di vita
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