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sabato 27 luglio 2013

Il viaggio come metafora di crescita


di Mbacke Gadji

Il senso delle cose e il valore degli uomini.
Viaggiare significa sconfinarti con l'insolito, il tragico, oltre alla perdita di punti di riferimento. Colui che viaggia ha a bordo se stesso. Il viaggio è sempre un'uscita dal tempo, una scappata dalla propria storia.  Viaggiare è andarsene, rompere gli ormeggi. Partire, invece, è riannodare il senso della condivisione scoprendo quello dell’ospitalità. Viaggiare è anche rischiare di rompere con il mondo conosciuto, la separazione dagli esseri amati. L’uomo cerca se stesso e la caccia di sè è il fondamento della sua mobilità. Il viaggio può essere paragonato a una scuola d’autonomia che dà coscienza delle realtà umane. Un mito dell’altrove che induce alla mobilità, soprattutto quando le condizioni nel proprio ambiente non sono ottimali. Un detto Wolof (un gruppo etnico del Senegal) proclama : "chi non viaggia non sa dove c’è la bella vita”.

Il viaggiatore sveglio è quello che si serve della sua esperienza, della sua alterità  per meglio vivere il contatto con gli altri; in Persia si pensa che l’uomo non possa maturare che nel viaggio.

“ Se non hai studiato, viaggia” dice un proverbio africano.
L’incontro con l’altro è considerato come una scuola, un modo di acquisire conoscenze e capacità per gli umani. Il detto è confermato da tante mitologie e fiabe africane i cui protagonisti completano il loro ciclo di apprendimento e la loro saggezza visitando parecchi paesi. Mamadou Massina, l’uomo che liberò il Massina dalla tirannia di un re barbaro, aveva maturato la sua strategia “à l’école de la rue”, un vagabondaggio che l’aveva portato a vedere tanti paesi. Nei suoi lunghi spostamenti ha imparato che conquistare il cuore di una bella fanciulla equivale ad avere i favori della sua famiglia. Di ritorno al suo paese, ottiene l’amore della figlia del re e furono proprio i suoi favori che lo misero fuori gioco (leggende contadine naif). Lat Dior che ha tenuto testa all’invasione francese, ma anche Samori Toure, come Massa Kanka Moussa vantano anni di vagabondaggio (per così dire) prima di regalare ai loro rispettivi popoli una degna e valorosa vicenda umana. 

Nella cultura Wolof, si pensa che viaggiare significhi portare con sé un patrimonio da offrire in terra di accoglienza e in cambio si spera di tornare con altrettanto da questa terra. Si può pensare che viaggiare non porti una crescita solamente per il soggetto che viaggia ma anche per la gente e la terra che lo accolgono. L’uomo da quando ha acquisito la posizione eretta nella “Rift Valleè” ha sempre guardato e ambito l’orizzonte. Il popolamento del resto della terra si è svolto mediante emigrazione. Lo sconfinamento è quindi nella natura dell’uomo. Il dilemma oggi è nel rapporto assai squilibrato che ognuno ha con la mobilità. C’è chi lo sceglie, c’è chi lo subisce. L’esercito dei viaggiatori imbocca oggi strani giri: rifugiati politici, migranti del lavoro, nomadi del tempo libero, le ragioni del viaggio non sono sempre le stesse.
Ci sono due aspetti del viaggio: l’itinerante che rinvia all’idea di circolazione, di circuito, di giro turistico e il migrante che ricorda piuttosto l’idea di trapianto, di soggiorno, di permanenza. In entrambi i casi il viaggiatore è percepito nell’immaginario collettivo della gente come un essere potenzialmente non sottomesso. Ma se arriva dal Sud verso il Nord  e in più senza un soldo in un mondo di ricchi, deve prima sottomettersi al paese di accoglienza tramite le sue autorità; l’accoglienza qui non è sempre sinonimo di ospitalità.
Con i successi della globalizzazione (il dominio del potere economico e finanziario transnazionale), le strade dell’immigrazione clandestina diventano purtroppo sempre più schiaviste e criminali, legittimando così le politiche repressive dei governi del Nord. L’indifferenza sotto forma di diffidenza diventa la regola al posto del benedetto binomio apertura e libertà di movimento. Gli abitanti del Sud del mondo vedono passare sulle loro strade dei viaggiatori privilegiati, con il solo scopo di visitare, mentre i loro propri figli tentano di volare, di esiliarsi, di agganciarsi ad una improbabile terra di accoglienza dove rischiano il respingimento, l’espulsione, l’umiliazione.

Finora le persone economicamente disagiate sono sempre state costrette al viaggio
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Il migrante è strettamente legato al mondo del lavoro, un universo che egli incontra con gli altri nel momento dell’insediamento e nel quale deve integrarsi per soddisfare i suoi bisogni. L’integrazione di un soggetto in una società o nella realtà in cui vive è un traguardo importante, una condizione indispensabile per poter vivere un’esistenza dignitosa per sé e per la propria famiglia. L’integrazione è anche un percorso che dura più vite o generazioni, non ha limite di età e non è mai compiuto. Parliamo, quindi, di grado di integrazione di una persona, di una famiglia o di una comunità in una società che accoglie. È un cammino lungo e a volte difficoltoso per problemi legati sia all’individuo (cultura e costume della società di origine da conservare) sia alla comunità di approdo (più o meno conservatrice, privilegi economici e sociali da salvare e paura dell’estraneo).
Tutti gli immigrati auspicano di vivere dignitosamente nella terra d’accoglienza, cioè di diventare soggetti di diritti e di doveri. Uno dei diritti inalienabili è quello inerente alla cittadinanza senza la quale vengono meno tutti gli altri. Il non cittadino o l’essere cittadino di secondo grado è di per sé una negazione alla vita, ai diritti fondamentali, a un’opportunità di partecipazione effettiva, cioè a un «integrazione» di qualsiasi tipo.
La principale arma degli uomini sedentari, autoctoni, per controllare la mobilità è lo Stato. L’essere in movimento è prima di tutto essere controllato di continuo: passaporto, visto, identità, risorse, indispensabili secondo loro per la sicurezza degli spazi violati e delle popolazioni e per garantire la stabilità. Questo controllo è spesso un mezzo per dividere i poveri dai ricchi, gli esclusi dai “nantis”.  
Lasciare il proprio paese natale, può essere motivato da due necessità:
- essere spinti o costretti a partire quando le condizioni di sopravvivenza non sono più garantite. Questa a sua volta comporta delle sfumature sia che le circostanze siano naturali o artificialmente provocate. In entrambi i casi, la paura dell’ignoto viene travolta da una premura di salvezza e il luogo di approdo è importante e indispensabile, indipendentemente da quello che è capace di offrire. Non c’è in generale una consapevolezza della destinazione ma solo una speranza che le condizioni siano migliori dal luogo di partenza. Quando una massa di persone costretta a partire si rovescia su una strada per un luogo presunto più sicuro, non tiene conto del fatto che per la sua dimensione il luogo di approdo potrebbe scoppiare o non reggere l’impatto e che le risorse disponibili in quel posto potrebbero risultare insufficienti per la sopravvivenza di tutti.

L’incolumità (sopravvivenza, sicurezza, etc.) continua ad essere allora precaria nella maggior parte dei casi. I campi profughi sparsi nel continente africano e nel resto del mondo, restano sempre delle bombe a orologeria, difficili da governare. Nello stesso tempo, le condizioni di vita dei richiedenti di asilo in tutto il mondo, sono infernali e disumane, anche se i  casi presentano un carattere più umanitario che socio-cuturale o geopolitico. Quando una persona  viaggia per hobby, per bisogno di svago o di vedere altri orizzonti, la scelta è consapevole e i rischi circoscritti. A questi soggetti, turisti nomadi, che solcano continuamente le strade del mondo, il viaggio anche se sentito come necessità non diventa mai obbligatorio come per il gruppo citato prima.

Lasciare un luogo in ogni caso presume una consapevolezza o una speranza inattaccabile. Nell’era della globalizzazione, le frontiere culturali sono lontane dallo sposare le frontiere politiche. Quando un gruppo conserva la sua identità, quando i suoi membri entrano in interazione con altri, questo implica automaticamente la messa in campo di criteri per determinare l’appartenenza e l’esclusione. Questo fenomeno é quasi istintivo, cioè non razionale né ragionevole, una triste realtà. Il rischio in entrambi i casi è lo sconfinamento impedito dalle popolazioni autoctone e dalle strutture del luogo. Lo straniero, secondo l’immaginario collettivo di ogni popolazione autoctona, è in ogni caso il portatore della disgrazia del momento (malattie, insicurezza, etc.), il ladro di turno di ogni bene posseduto dai padroni di casa (lavoro, ricchezza, etc.).

“Viaggia, scoprirai il senso delle cose e il valore degli uomini.”
Questo detto non ha bisogno di essere commentato,  è frutto di secoli e secoli di osservazione generazionale degli individui con la sindrome del viaggio nel cuore e nella mente. Vale anche per me, nomade per circostanza, secondo le opportunità di sopravvivenza. Nulla ha in comune con quei viaggi, idee e pensieri naturali per ogni individuo. Questo sconfinamento che è viaggiare, è un rapporto fisiologico con il tempo e lo spazio nostro. Questa mia riflessione sul viaggio non é il frutto di una ricerca intellettuale o sociologica, è un vissuto, un esperienza. Sono partito dal Senegal più di venti anni fa e da allora ho vissuto in tre nazioni diverse. Sono stato ospite in tante città europee e del mondo ma soprattutto mi sono confrontato con parecchie persone. Questo ha comportato varie situazioni che man mano hanno costruito e modellato la mia persona e le sue molteplici di identità.

Doppia assenza e doppia identità.
L’essere immigrato (viaggiatore) è in effetti una persona soggetta a una «doppia assenza»: da una parte egli non è più membro attivo della società di provenienza, dall’altra fatica a trovare un ruolo e una appartenenza socio-culturale nella terra d’accoglienza. Emigrante per la società di origine e immigrato per quella di accoglienza, una doppia esistenza in un’unica vita. Sul piano psicologico, ciò significa che per un immigrato che percorre la via dell’integrazione non sembra esserci una identità unica. Per certi versi egli è saldamente aggrappato al suo progetto di vita, per altri si identifica idealmente con nostalgia nel suo paese di origine (ritorno). Una «doppia identità» che nemmeno i rientri frequenti in patria (per chi ne ha il privilegio) o un grado sufficiente d’integrazione nella nuova società di accoglienza, permettono di reggere senza traumi.

Una domanda mi sorge spontanea: cosa sarebbe il mondo senza gli scambi avvenuti e che continuano ad avvenire tramite il viaggio? Peccato che l’egocentrismo culturale del Nord del mondo si opponga al processo naturale di creolizzazione dell’umanità, come pure che il suo egoismo latente tolga dignità e possibilità di sopravvivenza alle popolazioni del Sud.  In ogni caso gli uomini partiranno sempre finché ci saranno le strade e l’autentico viaggiatore sarà colui che riuscirà a confondersi nella popolazione-ospite per meglio scoprire la profondità della cultura e del popolo. Sarà fortunatamente per una scelta deliberata e ragionevole, capace di svegliare l’alterità e di suscitare l’incontro con altre filosofie di vita

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